Racconti

leggere, sognare, scrivere... pensare

Ecco, ritornerò alla cultura
a quella che ho amata di passione
a quella madre antica e snaturata
che andava mendicando coi bambini.
di Angela Cavelli

Fiabe e racconti

Cosa sarebbe la vita
senza storie...

Lunedì 9 Marzo, 2015
9 marzo 2015

CESARE PAVESE E IL PARRICIDIO

di Angela Cavelli

Ambizione
Pavese scrive ne Il mestiere di vivere:
“Riuscire a qualcosa, qualunque cosa, è ambizione, sordida ambizione. E’ logico quindi ricorrere ai più sordidi mezzi.”
Ma come? Arrivare al successo, riuscire a combinare qualcosa perché se ne è avuta la voglia, e poi parlare con disgusto dell’ ambizione e chiamarla “sordida” è fare un’operazione di per sé perversa. Ma ancora di più lo sono le conseguenze che Pavese tira: qualsiasi mezzo andrà bene, anche se sordido, pur di arrivarci.
In lui la censura censura cosa? Il fatto di essere stato eccitato da altri ad andare da qualsiasi parte e di esserci riuscito. L’attacco dunque è al pensiero, di cui l’eccitamento è il primo articolo. A Pavese, lettore di Shakespeare, si addice una frase, presa dal Giulio Cesare, perché, dopo aver avuto successo, si è tolto la vita nell’albergo Roma di Torino:
“Amavo Cesare (…) ma era un ambizioso e l’ho ucciso!”(Bruto-Pavese)
Per precisare come l’attacco all’ambizione è attacco al pensiero riferisco un pezzo tolto dal Blog di Giacomo Contri del 29 aprile 2009. Ecco il testo:

“Riferisco (dalla supervisione) due lapsus di una giovanissima in cui la censura sui sessi è massima fino a estese conseguenze patologiche, anche clinicamente manifeste:
1° intendeva dire che avrebbe voluto scrivere un racconto ma ha detto “romanzo”, ossia qualcosa di più ambizioso: subito ha rinnegato il lapsus come “distrazione”;
2° lo ha rinnegato con non minore determinazione e indisponibilità a ripensarci che un lapsus di poco precedente, in cui aveva sostituito “gravidanza” con “aborto”.
Il rinnegamento dei due lapsus in successione fanno di lei una povera diavola.
Il riconoscimento della sua ambizione l’avrebbe guarita anche quanto al sesso, sul quale il pensiero non massacrato ha vita facile.”

Parricidio
Ho pensato che il parricidio è l’uccisione del proprio e dell’altrui pensiero.
In un testo giovanile di Pavese, un personaggio (in cui evidentemente Pavese si identifica) al pensiero di provar piacere nel toccare i muscoli di un amico e nel sentirne la forza annota: “come fossi una donna” e subito pensa al suicidio. Ma non si tratta di omosessualità: il bambino vede il padre che fa l’amore con la madre e annota che la posizione della donna è quella del modus recipientis, del modo passivo di chi riceve e in quel momento desidera essere nella posizione di ricevere dal padre anche sessualmente. Pavese, raccontando di questo personaggio, parla di sé, del suo rinnegare il pensiero del rapporto col padre che per un attimo si è fatto presente con il ritorno del rimosso, rinforza la rimozione e pensa al suicidio. E’ in questo modo che consuma il parricidio, uccidendo il proprio pensiero e quello del padre, a cui seguirà il suicidio che lui stesso afferma essere un omicidio timido, perché il pensiero del padre porta con sé quello di legame sociale.

Recepire o essere salvato?
Pavese non avrà mai una donna perché è nel modo del ricevere, nel modo femminile, che avrebbe potuto recepire una donna, senza per questo perdere le caratteristiche del proprio sesso.
Invece si pone nella posizione dell’essere salvato, si fa rappresentare dal “poverino” che chiede pietà.
Scrive infatti: “Sono stato stupido, vile e inetto, per questo sposami”: non è questo il ragionamento che le(alla donna) facciamo ogni giorno?”

L’innamoramento uccide la donna
E ancora: “La cosa segretamente e più atrocemente temuta, accade sempre. Da bambino pensavo rabbrividendo alla situazione di un innamorato che vede il suo amore sposarne un altro. Mi esercitavo a questo pensiero. E voilà.”
Anche qui Pavese non fa una mossa, eppure il bambino è capace di dire: “Mamma, quando papà muore, ti sposo io.” E invece niente, lui drammatizza.
E ancora: “E’ forse questa la mia vera qualità (non l’ingegno, non la bontà, non niente): essere invasato d’un sentimento che non lascia cellula del corpo sana. (…) un altro - chiunque - a quest’ora l’avrebbe uccisa (la donna).”

L’ideale
Ma chi glielo fa fare di porsi nella posizione del fallimento? Senz’altro un ideale.
Scrive: “Lui guadagna, lui è capace di affetto costante, lui non piange mai, lui ha la fetta di polenta, lui le fa girare il mondo, lui la protegge – queste cose non le invento, le ha dette lei.”
Ma l’ideale, così come il dramma, è una modalità per non volere una donna, per non recepirla.
Pavese non persegue una propria meta, non muove un dito per far venir voglia a una donna di stare con lui, aspetta da lei tutto e se lei si permette di fargli delle richieste perché si instauri una relazione, allora pensa all’omicidio.
E’ come dire che vuole essere amato per quello che è: infatti scrive, citando Lavelle, che non è importante agire, ma essere.
Questa non è la posizione del ricevente: infatti, Il 26 aprile del 1939 Pavese annota:
“La compagnia di una persona amata fa soffrire e vivere in stato violento. Bisogna scegliere la compagnia di chi ci sia indifferente, ma allora il nostro rapporto con lei è pieno di riserve mentali, e si desidera continuamente restare soli, e dentro di noi la si abolisce.”
Insomma o l’innamoramento o la disdetta.
Del resto il concetto di destino, in Pavese, visto come Fato, è interno a questa logica: non muoverò un dito per correggere il mio pensiero perché tutto è già determinato. Anche in questo caso fa un’operazione perversa: usa le parole di Freud: “ a 5, 6 anni i giochi sono già fatti” per ribadire che “tutto ciò che è stato (nell’infanzia) sarà” e parlerà “dell’eterno ritorno dell’uguale” per significare che i suoi fallimenti erano già scritti senza che lui ne sia minimamente imputabile.

Per precisare la posizione del prendere, del profittare, del ricevente, racconto di un giovane che avevo in cura a cui era capitato di stare male fino a svenire quando qualcuno parlava della relazione con una donna. Sognò di prendere dal finestrino di un’auto qualcosa che un extracomunitario vendeva e questo sogno segnò l’inizio della guarigione. E’ vero che l’atto del prendere non è passivo, ma questo è il caso del profittare: ha profittato di ciò che era alla portata delle sue mani, che è il modo del ricevente.

Del resto una donna nella passività del ricevere è attiva: è infatti pronta, preparata a ricevere, altrimenti nel fare l’amore si scosterebbe, ed è quello che fa l’isterica che fa di tutto per non venire al rapporto.
E’ anche ciò che fa Pavese drammatizzando, svenendo, innalzando un ideale, sventolando la bandiera dell’impotenza, del destino e del “sono fatto così”.
Mercoledì 2 Novembre, 2016
INNAMORAMENTO:IN AMORE SI MENTE
Il 5 marzo 1938 Pavese nel "Mestiere di vivere" scrive: "L'amore interessa la persona amata in ragione delle cose che porta con sè. Per cui chi si preoccupa di amare sinceramente e integralmente quasi mai ha avuto tempo nella vita di accumulare le cose (personalità, ricchezze, forza, mezzi, qualità, ecc.)che farebbero accettare il suo amore. Dell'amore in sè nessuno sa che farsene. E siamo giusti:che cosa è l'amore in sè, altro che la libidine di uno scimmione?"
Commento: Pavese mente sapendo di mentire. Pur ammettendo che l'amore comporta un lavoro per conquistare la donna, lui si chiama fuori da questa legge. Secondo lui non ha potuto arricchirsi nei mezzi, nella personalità e nei modi della relazione che gli avrebbero permesso di avere una donna perchè non ha avuto tempo.Ciò non è vero: non ha voluto lavorare per la relazione. Siamo ancora al :"voglio essere amato per quello che sono".Il Padre primigenio nel "Totem e Tabù" di Freud non muove un dito per farsi amare dalle donne e dai figli perchè si ritiene staccato da ogni rapporto: è l'uomo che non deve chiedere mai. L'ideale di Pavese è lo scimmione che ha l'amore in sè, cioè una legge già data (istinto) e che lui giustamente critica.

PSICOSI: SOMMERSIONE IN UN MARE D'AMORE
Il 23 marzo 1955 Pavese scrive: "L'amore è veramente la grande affermazione. Si vuole essere, contare, si vuole, se morire si deve, morire con valore, con clamore, restare, insomma"
Il 29 gennaio 1944 scrive:"Ci si umilia nel chiedere una grazia e si scopre l'intima dolcezza del Regno di Dio. Quasi si dimentica ciò che si chiedeva:si vorrebbe godere sempre quello sgorgo di divinità. E' questa senza dubbio la mia strada per giungere alla fede, il mio modo di essere fedele. Una rinuncia a tutto, una sommersione in un mare d'amore, un mancamento al barlume di questa positività. Forse è tutto qui: in quel tremito del "se fosse vero!" "se davvero fosse vero..."
Commento: Il senso di umiliazione, l'intima dolcezza, la dimenticanza, la rinuncia a tutto, la sommersione in un mare d'amore, il mancamento, il tremito sono i segni di qualcuno che sta scivolando nella psicosi, nell'essere pazzo d'amore. Inoltre, lo "sgorgo della divinità" fa pensare allo sgorgare dell'acqua, ad un evento naturale. Dio come natura.

Martedì 18 Ottobre, 2016
Angela Cavelli
Vi propongo un racconto di Jamaica Kincaid, una scrittrice giamaicana che scrive sotto pseudonimo e tratta del rapporto di una ragazzina con sua madre, anzi, della madre con la ragazzina.
Ho pensato di leggervelo perché è interessante.
«Lava i panni bianchi di lunedì e mettili sul mucchio di sassi, lava i panni colorati martedì e mettili sul filo ad asciugare. Non camminare a capo scoperto sotto il sole cocente, fai le frittelle di zucca in olio dolce ben caldo, metti a mollo la biancheria appena te la togli, quando compri il cotone per farti una bella camicetta bada che sopra non ci sia la gomma altrimenti si allenterà dopo averla lavata. Metti a bagno il pesce sotto sale la sera prima, è vero che canti i benna a catechismo– i benna sono i canti di Antigua –, «(…) mangia in modo da non dare agli altri il voltastomaco, la
domenica cerca di camminare come una signora e non come quella zoccola che vuoi diventare. Non
devi parlare con quei topi di fogna del riformatorio, nemmeno per dare indicazioni, non mangiare la
frutta per strada, le mosche ti verranno dietro».2
Il discorso prosegue sempre con questo tono.
«Guarda come si fa l’asola per il bottone che hai attaccato, come si fa l’orlo al vestito
quando vedi che pende, così non sembrerai quella zoccola che, lo so, vuoi diventare».3 Così va
avanti e dice anche: «Guarda come si ama un uomo e se non funziona ci sono altri modi e se non
funziona, non sentirti troppo male all’idea di lasciar perdere. Schiaccia sempre il pane per
controllare che sia fresco» – ho saltato davvero molto – , «“E se il fornaio non mi fa toccare il
pane?” chiede la ragazza, e la madre: “Intendi dire che finirai per diventare il tipo di donna che il
fornaio non fa avvicinare al pane”. »4
Appena l’ho letto ne ho parlato con Giacomo Contri in quanto a me sembra prescrittivo e
lui mi ha bastonato – cioè mi ha fatto venir giù dalla pianta, come si dice, e cadere per terra –,
dicendo che la madre dà delle indicazioni alla ragazza per diventare una signora e non una zoccola;
è come dire che fa un’azione economica di vantaggio, produce un vantaggio.
Giacomo B. Contri
Per una volta una madre non da gulag. Avete presente il gulag?
Angela Cavelli
Questa donna non s-viene all’appuntamento perché dice che cosa è stato vantaggioso per
lei, e pensa che sarà vantaggioso anche per la figlia. Sarà poi la figlia a ereditare, a fare proprio ciò
che le dice la madre, se le interessa e se vuole diventare una signora.
Questa donna mostra un agire economico efficace.
Ricordo che Raffaella Colombo parlava di un ragazzino che faceva lo scemo e che lei disse
a questo ragazzino che se avesse continuato a comportarsi così lo avrebbero preso per scemo.
Anche questa è un’indicazione: come dire di andare verso una strada di successo, invece di fare lo
scemo. Le indicazioni della madre sono: “Se ti vesti come una zoccola, ti si prenderà per una
zoccola”, oppure: “Se vuoi diventare una signora, devi cambiare registro, cambiare modo”.
Ho pensato che in questo caso non si tratta di un condizionamento tipo schema stimolo-risposta
perché comunque, la madre fa pensare la figlia e starà poi alla figlia, appunto, ereditare le indicazioni della madre.
Giacomo B. Contri
Un esempio di comportamento economico, a proposito di “non fare lo scemo”, è questo: se
proprio mi sento disposto a dire a qualcuno di non fare lo scemo, poi – anzi, addirittura in anticipo –
gli devo chiedere cento euro, come per una seduta.
Ci sono due modi assolutamente opposti di dire a qualcuno di non fare lo scemo: uno è
l’ingiuria, ovvero ti do dello scemo, col che poi mi espongo alle ritorsioni, peraltro meritate; un po’
come tutti quelli che vanno a dire alla gente cosa pensano di loro: non ci penso nemmeno; cento
euro.
L’altro, se gli ho chiesto cento euro, non si sentirà diffamato perché gli ho detto di non fare
lo scemo: se l’ho fatto per cento euro, sono stato il suo consulente di quel giorno. Poi esisteranno
altri modi di retribuzione, ma anche la frase “non fare lo scemo” può essere pensata in termini
retributivi e la retribuzione è un caso di relazione. Io ho guadagnato i cento euro, quello là ha
guadagnato una consulenza.
Già negli anni ’10 gli psicoanalisti di Freud si accorgevano che era gravissimo che fra di
loro si dessero del nevrotico, dell’isterico, del paranoico: è cominciato così, alla fine hanno dovuto
stabilire qualche regola al riguardo perché l’aggressione degli uni verso gli altri con queste diagnosi
erano palesi. Un giorno ho capito, nella mia lunga carriera, che mai avrei detto a qualcuno che era
nevrotico ossessivo se non per molte volte cento euro.

Martedì 18 Ottobre, 2016
Sintesi della 1° parte
Vi si parla di Duffy, un uomo che opera come cassiere in una banca di Dublino; ha un
viso bruno come le strade dublinesi e una bocca poco gradevole; cammina rapido e fermo portando
una robusta mazza di nocciolo. Se l’affetto è una cosa sola con la vita del pensiero, un tempo si
diceva che ne era il colore, Duffy ha l’affetto dei melanconici “tristi […] nella belletta negra”2,
tanto che Joyce lo definisce un saturnino, secondo una dottrina medievale. La sua vita segue un
programma preciso: tutto è regolato: pranza sempre nello stesso luogo dove si sente sicuro perché
lontano dalla gioventù elegante di Dublino; alla sera suona il piano della padrona di casa o va ai
concerti. Odia la città e abita in un sobborgo, ma non di quelli troppo pretenziosi e volgari. La sua è
una casa essenziale con pochi arredi essenziali e una piccola biblioteca. Non ha né compagni né
amici, né chiesa, né credo. Fa visita ai membri della sua famiglia a Natale e li accompagna al
cimitero quando muoiono; adempie a questi doveri per tradizione, ma non concede di più alle
convenzioni.
Sembra la vita di un anonimo travet, ma Joyce aggiunge alcuni particolari che colpiscono.
Scrive: “[…] rifuggiva da ogni indizio esteriore di disordine fisico o mentale […] gli zigomi ossuti
gli aggiungevano una nota di durezza, durezza che però non appariva negli occhi, i quali guardando
il mondo da sotto le sopracciglia rossicce, davano l’impressione di un uomo sempre pronto a
scoprire negli altri impulsi di redenzione, e sempre deluso. Egli viveva a una certa distanza dal
proprio corpo considerandone le azioni con dubbiose occhiate di sbieco. Aveva inoltre una strana
abitudine autobiografica che lo induceva a comporsi di quando in quando nella mente brevi frasi su
se stesso, col soggetto in terza persona e il verbo al passato. […] Consumava la sua esistenza
spirituale senza comunione alcuna col prossimo, visitando i parenti a Natale e accompagnandoli al
cimitero quanto morivano. […] Si permetteva di pensare che in date circostanze avrebbe anche
potuto sottrarre soldi alla banca, ma poiché tali circostanze non si presentavano mai, la sua vita
scorreva uniforme ed eguale: storia senza avventure”.
Commento
Si può dire che Duffy è un manichino iper-regolato che controlla la propria e l’altrui vita,
osserva sé e gli altri dal di fuori, con sguardi impietosi e critici. Odia il disordine mentale e fisico,
cioè quanto di nevrosi è rimasto in lui: inibizione, sintomo, angoscia. Evita come la peste di
incontrare qualcuno che potrebbe destabilizzarlo, disequilibrarlo, eccitarlo. È l’equilibrio fatta
persona. Del resto chi è più equilibrato di un manichino? Quando pensa a se stesso, formula pensieri
per lo più in terza persona, non come io; l’io non è più al servizio dell’iniziativa personale (Chi!
inizia, corpo eccitato divenuto fonte del movimento) ma sta sottomesso a qualche teoria che ha
preso il posto di comando, senza ottenere nulla, neppure un dollaro bucato.
Nella norma, l’Io fa parte della legge di moto del corpo, ma Duffy rifugge il corpo, lo
guarda di traverso, soprattutto quando si muove, lo controlla perché lo sente come un pericolo.
Eppure Duffy si muove. Come? Secondo una legge di sopravvivenza che vuol dire “io sopra io”,
“sopra fonte"che rende l’io, titolare dell’atto del porre la legge di moto del corpo in ordine alla
soddisfazione, un rinunciatario non padrone in casa sua. Forse che non voglia mai dichiararsi
imputabile?
L’unico pensiero che si permette come io è quello di rubare alla sua banca, se lo permette
perché è illegale, non ha il pensiero del possesso legittimo dell’erede: per lui non c’è eredità alcuna.
È nemico del successo, quando successo significa accadere di qualcosa che lo sorprenda. Il suo è un
va e vieni che non si conclude mai, con qualche sonatina di Mozart come intermezzo, il cui Ordine
è un disordine con scomparsa del corpo. Che cosa contempla Duffy? il suo Cielo delle idee fisse,
composto anche da frasi, proposizioni da cui farsi comandare, che fa obiezione di principio al
venire chiamati, eccitati da un Altro.
Sintesi della 2° parte
La musica, sua unica passione, lo porta a conoscere una donna maritata, con figlia,
piuttosto vivace e spigliata alla quale il marito, capitano di nave, non mostra alcun interesse. Dopo
alcuni incontri occasionali e una serie di appuntamenti, il signor Duffy, cui non piacciono i
sotterfugi, induce la donna a invitarlo a casa sua. Il capitano Sinico pensa che Duffy sia un buon
partito per la figlia e comunque non gli interessa che abbia altre mire in quanto ha allontanato la
moglie “dal quadro dei suoi piaceri”. Duffy gode della compagnia della signora, “allaccia ai
propri pensieri quelli di lei” le presta libri, le suggerisce idee, divide con lei la sua vita intellettuale.
La donna ascolta tutto e in cambio delle teorie che riceve, racconta i fatti della sua vita e con
“sollecitudine quasi materna” lo esorta ad aprirsi senza riserve, tanto da divenire il suo confessore.
Duffy le racconta che aveva lasciato il partito socialista perché si era diviso in tre fazioni e
anche perché gli operai erano dei realisti induriti, avevano un interesse secondo lui eccessivo per il
salario; lui suscitava invidia perché agiato e loro non sopportavano la sua esattezza di
ragionamento, tanto che a suo parere nessuna rivoluzione sociale avrebbe colpito Dublino per
secoli. La donna gli propone di scrivere le sue teorie, ma lui con disdegno studiato non vuole
mettersi in gara con dei mercanti di parole incapaci di riflettere e non vuole subire le critiche di una
ottusa borghesia.
Questa unione lo esalta, smussa le angolosità del suo carattere, comunicando una certa
emozione alla sua vita mentale.
Ogni tanto si sorprende ad ascoltare il suono della propria voce.
Pensa di essere asceso agli occhi di lei ad un’angelica statura e mentre si adopera a legare più
stretta a sé la fervida natura della sua compagna, ode la strana voce impersonale che riconosce per
propria, insistere sull’incurabile solitudine dell’anima: “Non ci possiamo abbandonare – diceva la
voce – noi non apparteniamo che a noi stessi”.
Commento
Joyce è puntuale quando parla di “emozione” e non di affetto: in Think del 26 novembre
2012, Giacomo Contri, riprendendo il 3° articolo della prima Costituzione, scrive: “[…] con una
persona ci si sta (o no) con la testa: è il principio dell’amore o del dis-amore (Freud ha individuato
come patologia la scissione tra rappresentazione e affetto). […] L’amore, se è, è intellettuale.
L’emozione, dramma che si compra al mercato come un DVD, subentra come patologia quando
l’affetto si è separato dall’intelletto, ossia non è più vita dell’intelletto”.
A guardar bene il rapporto di Duffy con la signora Sinico è un rapporto educativo: lui è
l’amante che dall’alto della sua conoscenza offre all’amato le sue teorie e lei è l’amato che dovrà
impararle. La signora non coglie che Duffy la sta ingannando proprio sull’amore. Il fatto che lui
senta la sua stessa voce vuol dire che si parla addosso, sta recitando la parte del maestro, ma di ciò
che la donna dice non se ne fa niente, non è un cibo nutriente per lui, che vede in lei solo qualcuno
da educare. Obbliga la donna a riceverlo nella casa maritale perché gli ripugna che ci si nasconda, e
ciò dice già tutto sull’intenzione di Duffy: si vede come angelo per lei, si pensa dunque asessuato,
un angelo caduto dal cielo “a miracol mostrare”, cioè a imporre a lei le sue teorie che già asservono
il suo corpo-pensiero”.
Ricordo con piacere che Freud, riprendendo Heine, scrive: “Il Cielo abbandoniamolo agli
Angeli e ai passeri”.
Se avesse letto Freud, forse la signora Sinico avrebbe lasciato “l’angelo” al
suo Cielo infernale, e i passeri ai cieli azzurri.
Duffy non vuole dunque farsi a lei, la sua obiezione di principio al modus recipientis è
palese quando parla della incurabile solitudine dell’anima. Duffy non è il Narciso del mito, ma un
Narciso che si incontra per strada, al supermercato, in banca e che fa cadere dal cielo la sua morale
sulla possibile partnership che potrebbe portare profitto ai due partners. Duffy ha dato un
appuntamento alla signora ma non l’ha onorato, usando come clava una teoria presupposta:
“apparteniamo solo a noi stessi”. Il giudizio di verità verte sul comportamento di Duffy in relazione
alla legge, e la legge da lui posta era che gli faceva piacere incontrare la signora, altrimenti non
l’avrebbe convocata, ma poi rinnega la legge, accampando una teoria.
E la sventurata, invece di rispondergli a muso duro: “Allora io cosa sono qui a fare? per
mio interesse e tuo vorrei che aprissi gli occhi, visto che neanche vedi che sono qui, solo così
potrebbe accaderci qualcosa”, è presa dall’idea dell’amore cieco; mettendo in contrapposizione
l’amore e il sapere, pure lei non vede chi ha davanti, e non ode ciò che dice, così va a proporre
all’uomo di pubblicare le sue teorie, al che Duffy ovviamente fa obiezione in nome di una purezza
che mai dovrà essere contaminata da borghesi o giornalisti. È proprio il caso di dire: “Mai dare le
perle ai porci”: se ne farà un porco.
Rispetto alla frase “noi non apparteniamo che a noi stessi” Freud scrive: “[…] Nella vita
psichica del singolo, l’altro è regolarmente presente […] come modello, come oggetto, come
soccorritore, come nemico, e pertanto, in quest’accezione più ampia ma indiscutibilmente legittima,
la psicologia individuale è, al tempo stesso, fin dall’inizio, psicologia sociale”.
La frase di Duffy è dunque falsa.
Sintesi della 3° parte
Il risultato di questi discorsi fu che una sera, nel corso della quale aveva dato segno di un
insolito turbamento, la signora Sinico gli prende con passione una mano e se la preme sulla guancia.
Duffy rimane assai stupito. Il modo con il quale la donna interpreta le sue parole lo delude.
Per tutta una settimana non si fa più vedere, poi le scrive per chiederle un appuntamento.
Stabiliscono di tagliar corto sulla loro relazione: “ogni legame – dice lui – è un legame di dolore”.
La signora trema così violentemente che, temendo una nuova crisi, lui la saluta in fretta e furia e se
ne va.
Commento
È evidente che l’insolito turbamento della signora, che Joyce sottolinea, è il segno che lei
non ci mette la testa, è presa da un “va’dove ti porta il cuore” che la conduce alla fine a tremare per
l’angoscia di perdere un amore che non esiste: alla signora Sinico è mancato il giudizio. La
delusione di Duffy è che la donna si è permessa di eccitarlo, di mettere in crisi la sua inibizione
compulsiva, ha fatto da pietra di inciampo alla sua obiezione di principio. La frase che sintetizza la
situazione potrebbe essere: “Che cosa vuole da me?” La teoria: “Ogni legame è un legame di
dolore” che lui accampa, vuol solo dire che è angosciato, ma invece di confessare l’angoscia, che è
un segnale di mancanza di legge, la nega, giustificandosi in nome del dolore. Negando l’angoscia,
rifiuta di volerne sapere della legge di moto del corpo, della pulsione: l’eccitazione che viene
dall’altro, il corpo come fonte, la materia prima, cioè i suoi beni (corpo, pensieri, atti, proprietà),
tutto viene negato perché non diventi mezzo per la soddisfazione propria e altrui. Del resto la
relazione di Duffy con la signora Sinico è una relazione soggetto-oggetto e l’oggetto può solo
decadere, come infatti avviene: la signora Sinico viene abbandonata. In Think del 23 marzo 2013,
Giacomo Contri scrive che non c’è amore per l’oggetto ma solo sadismo.
Davanti a questi scenari mi è venuto alla mente il rapporto di Kierkegaard con la fidanzata
Regine: “A proposito di Kierkegaard, è compulsiva l’inibizione razionalizzata, o meglio teorizzata
a baciare Regine Olsen. Non compulsivo sarebbe se, non solo baciasse Regine, ma rinunciasse alla
rinuncia delle rinunce: l’obiezione di principio a farlo”.
Rispetto a: “l’ombra dell’oggetto cade sull’io” Giacomo Contri diceva in un Simposio che
quello che cade sull’io, l’ombra, è ciò che fa dell’oggetto l’oggetto, fa della rosa la rosa, quindi un
pregiudizio, un presupposto generalissimo. Io ho pensato che per il protagonista del racconto di
Joyce il pregiudizio possa essere: Tutti enti: uomo, donna, pidocchio, bastone ecc. che, in quanto
enti, sono tutti uguali. Non accadrà mai niente.
Sintesi della 4° parte
Per Duffy tutto torna piatto come prima, anzi più di prima. Due mesi dopo l’ultimo
incontro, scrive un appunto, uno degli ultimi, su un foglietto: “L’amore fra uomo e uomo non è
possibile per il divieto di un rapporto sessuale e l’amicizia tra uomo e donna è impossibile per la
necessità di questo rapporto”.
Commento
Con queste frasi Duffy fa valere il rapporto sessuale come voce propria, come sfera a parte,
ma è per concludere che non è possibile il rapporto, non si dà appuntamento. L’obiezione era già
presente prima. Anche nell’astenersi, Duffy è chiaramente un omosessuale e il suo programma
educativo nei confronti della signora Sinico non fa che confermare che il suo è un amore platonico.
Inoltre, il rapporto sessuale non è un dovere o una necessità e neppure ha voce in capitolo
ma è “a piacere” quando è già presente una partnership.
Nel Pensiero di natura, 3° edizione, in una nota a pag 113, Giacomo Contri prende spunto
dalla frase di Lacan: “Non c’è rapporto sessuale” per precisarne il significato: “[…] non c’è
soddisfazione, cioè rapporto, quando il sessuale non solo non lo favorisce – non lo con-pone – ma
gli fa obiezione”.
Duffy è un provinciale che è chiuso in un “cerchio fatale”, come scrive Tocqueville, da cui
non può uscire: la sua vita è divisa per sfere: la sfera sessuale, quella del lavoro, quella delle
convenzioni sociali e via di questo passo.
Prendo da Giacomo Contri alcuni spunti e li sintetizzo (Corso Studium Cartello 2008/9, 3°
Lezione, Difesa da Difesa di) perché sono adeguati a descrivere il provincialismo di Duffy:
È un uomo dalla piccole passioni, dai piccoli affari: è il pover’uomo che risulta dall’essersi
sottomesso a un principio (che non è quello di piacere) ma è il principio-obbedienza e obbedendo si
sottomette solo a se stesso, perciò la parola obbedienza è una menzogna, perché non c’è neppure un
tiranno a cui obbedire. Sacrifica a una delle sue volontà, astratta indeterminata, desideri o
ambizioni. È una rinuncia a tutto. Il suo è un lavoro “onesto e sterile”.
Sintesi della 5° parte
Qualche anno dopo Duffy legge sul giornale che una donna in cerca di bevande alcooliche,
attraversando i binari di notte, era stata colpita dal respingente del treno ed era finita a terra: era
morta per choc e conseguente arresto cardiaco. Il Coroner aveva dichiarato che nessuno era
responsabile. Evidentemente era proprio lei, la signora Sinico! Il giornalista aveva reso note le
generalità del marito e della figlia.
Duffy è disgustato, rivoltato dalla morte, che lui ritiene volgare e avvilente, della donna a
cui aveva confidato ciò che riteneva di più sacro. Aveva degradato se stessa e lui. La ritiene un
relitto senza volontà e decisione, facile preda delle abitudini, uno dei relitti generati dalla civiltà
moderna e si rammarica di essersi illuso. Interpreta ancora più duramente e severamente lo slancio
della donna in quella famosa notte e pare non avere rimpianti per averla lasciata, ma ora gli é più
facile approvare la decisione presa a suo tempo. Ciò che Duffy ritiene sacro sono i suoi assunti
teorici che stavano chiusi in un recinto, non dunque materia prima da trafficare con lei o con altri,
ad esempio per riceverne il beneficio del giudizio, ma qualcosa di intoccabile che la donna ha osato
profanare con la sua vita e morte vergognose. Poi Duffy incomincia a sentirsi a disagio, si domanda
che altro avrebbe potuto fare; aveva fatto ciò che aveva ritenuto opportuno, che colpa ne aveva lui?
Capisce che la vita di lei doveva essere stata vuota e ora anche la sua lo sarebbe stata fino a che
sarebbe morto. Percorrendo i viali che avevano percorso insieme, la sente vicina e gli pare che la
voce di lei gli tocchi l’orecchio e che la sua mano tocchi la sua. Rimane in ascolto: “Perché aveva
rifiutato la vita? Perché l’aveva condannata a morire?” Duffy sente la sua natura morale cadere in
frantumi. Vedendo due giovani sdraiati vicini, si sente escluso dal festino della vita e impreca alla
rettitudine della propria esistenza, che l’ha escluso dal banchetto della vita. Una sola creatura gli
aveva dimostrato amore e lui le aveva negato vita e felicità, condannandola a una morte
vergognosa. Quando non sente più la voce della donna si accorge di essere davvero completamente
solo.
Commento
Freud nella Minuta K, scrive: “L’affetto rimosso sembra invariabilmente tornare sotto
forma di allucinazioni di voci”.
A questo punto mi sono chiesta: qual è la rettitudine di Duffy? È la moralità kantiana,
quella di agire per puro dovere e con il quale l’interesse, il gusto, il piacere, la passione non hanno
nulla a che vedere. Verso la fine del racconto, c’è un riconoscimento di imputabilità nel
ripensamento di Duffy, ma anche altro e per illustrarlo riprendo il testo di Raffaella Colombo del
Simposio di dicembre 2012, L’ombra dell’oggetto non cade più sull’io, in cui cita Todorov il quale
riferisce che nel romanzo Adolfhe di Benjamin Constant il personaggio principale dice: “come
mancava al mio cuore la schiavitù che tante volte mi aveva indignato […] Ero libero: infatti non ero
più amato; ero un estraneo per tutti”. Raffaella Colombo sottolinea che “questo è il pensiero
contraddittorio dell’angoscia. Libertà sì, ma perdere l’amore no. Meglio la schiavitù. Questa forma
di pensiero corrisponde a una concezione dell’uomo di tradizione platonica, trasmessa poi al
cattolicesimo, quella per cui inizialmente l’uomo sarebbe un essere isolato che intrattiene rapporti
unicamente con cose e non con persone. Todorov nota che un simile uomo è quello che Locke
definisce come proprietario del frutto del proprio lavoro prima ancora di allacciare rapporti con
altri. Quest’uomo tratterebbe il partner come un “partecipante facoltativo” e non come socio. Un
partner che potrebbe esserci oppure no. Apparire e sparire. Ciò che definisce l’uomo in questa
tradizione è il suo dominio sulle cose. Il socio non è pensato”.
Infatti Duffy non pensa di aver perso una socia con la quale avrebbe potuto fare affari
amorosi e non, ma che lui è ora un escluso dal festino della vita, è solo, perché ha perso l’unica
donna che lo aveva amato, e non gli resta che rimpiangere un amore che dapprima lo aveva
indignato. Ancora una volta si chiama fuori da ogni possibile rapporto fruttifero con un altro,
ribadendo implicitamente che “un uomo è un uomo”, cioè un essere isolato. La libertà per Duffy è
diventata un Oggetto persecutorio e persecutore. Riprendo una frase di Nietzsche in Così parlò
Zarathustra, posta in esergo all’intervento di Raffaella Colombo: “[…] non voleva amare ma vivere
di amore” perché uno dei libri che Duffy aggiunge negli scaffali, dopo aver abbandonato la donna,
è proprio Così parlò Zarathustra, il che vuol dire che lui sapeva più di quello che voleva far
credere.
Nello scritto Una logica chiamata uomo, Giacomo Contri pone un bivio: “[…] o relazione
produttiva e lucrativa tra partner, lavoro su lavoro; in questa via l’io si definisce come proprietà
ordinativa di certi corpi, cioè normativa, secondo norme poste. L’altro corno del bivio é il vizio di
deviare e fissare nella logica predicativa ciò che è libero di prendere un’altra e salutare logica via. In
questo corno del bivio non c’è relazione tra partners ma relazione soggetto-oggetto”. Duffy posto
davanti al bivio: aut mettere a disposizione le sue proprietà (corpo sessuato, beni, idee…) in una
relazione produttiva, aut limitarsi, immiserendosi, a classificarle, segue senza pensare il secondo
corno. Duffy, un Robinson di Dublino, che non sarebbe mai uscito dal suo sobborgo se non a Natale
o per i funerali, vuole distinguersi, fissarsi e comportarsi secondo un ideale de-imputante: è l’uomo
senza appuntamenti perché il regime dell’appuntamento è sanzionatorio tanto nel suo successo che
nel suo fallimento. Quando Duffy sente una strana voce impersonale, che riconosce per la propria,
insistere sulla solitudine irrimediabile dell’io avrebbe potuto dire “Io sono io”, sarebbe stata la
stessa cosa, mentre il pensiero di natura enuncia: Io sono l’altro di un altro, rapporto per il profitto
condiviso. Il passaggio all’imputazione, per aver negato felicità e amore all’unica donna che lo
aveva amato e per aver sprecato la sua vita, si può interpretare con: “A chi ha sarà dato a chi non ha
sarà tolto anche quello che ha”. Del resto la signora Sinico nella sua ingenuità e nel suo
innamoramento non aveva fatto altro che prendere per buona la teoria di Duffy che non esiste
soddisfazione, ma solo la legge morale astratta a cui obbedire per puro dovere, che poi vuol dire che
non esiste Au, rappresentante dell’Universo. La signora Sinico ha lasciato solo Duffy con le sue
teorie, non è stata amica del suo pensiero: invece di lasciar perdere lui e le sue idee deliranti, si è
messa addirittura ad adularlo, facendogli da spalla: se avesse teso l’orecchio, quanto meno avrebbe
salvato la propria vita. Ha fatto da spalla a qualcuno che si ritiene imparagonabile, che evita il
confronto con tutti, il giudizio. Lui, la cui teoria significa: è tutto uguale, per cui non mi muovo,
applica a se stesso il principio dell’essere esclusivo: evita i paragoni, evita di mescolarsi con la
massa, fa l’indignato e lei lo elogia per questo, lusingata di essere la sola a venirne a sapere, l’unica
a cui parla. Duffy non può abbandonarsi all’amore perché per lui è una cosa da miserabili, da morti
di fame: è l’idea dell’ossessivo che è al di sopra di queste cose.
Martedì 18 Ottobre, 2016
Un Soggetto è qualcuno che si muove perché ha un interesse, che lo mobilita, verso
qualcosa che ancora non ha e che potrebbe ricevere da un altro, perché dunque“gli va”, gli
“va bene” qualcosa.
Ricordo che, quando insegnavo alle Scuole Elementari, qualcuno chiese ai bambini che
materia preferissero, ottenendo questa risposta: ”L’intervallo”. Alla domanda poi sul perché
qualcuno volesse fare l’insegnante da grande, la risposta fu: “Perché le maestre alle 10 e 30
bevono il caffè che porta la bidella”. Mi sembrarono delle buone risposte: a loro qualcosa
andava, qualcosa in quella scuola andava loro bene, infatti venivano a scuola volentieri. Noi
insegnanti naturalmente incominciammo a chiederci come mai le nostre lezioni non fossero
così interessanti come l’intervallo.
Seppi anche di una bambina che aveva chiesto: ”Perché andare a scuola non è bello
come mangiare?” Anche questa domanda ci interpellò, perché in effetti l’apprendere
potrebbe diventare bello come il mangiare.

La domanda come iniziativa
Una domanda è una iniziativa.
Faccio un esempio. Se un allievo fa una domanda all’insegnante, questa è una libera
iniziativa di un soggetto che ha fatto prima un lavoro di pensiero e poi si è mosso per porre
una domanda; non sto parlando di qualcuno che butta lì una cosa solo per far passare il
tempo, ma di qualcuno che ci ha pensato prima di porla, ha cioè fatto un lavoro; ebbene, se
l’altro, l’insegnante, si mette in moto per rispondere a questa iniziativa, cioè fa un lavoro
ulteriore e in questo valorizza la domanda dell’allievo, ne nasce qualcosa che prima non c’era
e cioè un profitto per entrambi, frutto di lavoro su lavoro. Possiamo chiamare questo un
rapporto di partnership, in cui c’è arricchimento intellettuale sia per l’allievo che per
l’insegnante.
E poiché l’affezione non è slegata dal lavoro intellettuale, possiamo chiamare questo
lavoro su lavoro l’inizio di un rapporto.
Dapprima, quando insegnavo alle Scuole Elementari, non mi rendevo neppure conto
dei bambini che avevo davanti, non li vedevo neanche, tutta presa com’ero dal programma,
li trattavo come teste da riempire il più possibile, tanto da compromettere anche l’intervallo.
Non mi accorgevo che loro avevano un pensiero e il pensiero quando è normale è sempre
amoroso, cioè pronto a cogliere l’interesse dell’altro per farlo diventare proprio. Trascuravo
così l’occasione di passare loro la mia voglia, il mio investire su ciò che facevo. Quando mi
resi conto di essere io la prima a non essere portatrice di interesse per ciò che insegnavo, mi
tolsi dalla fissazione del “devo fare tanto”, “devo fare tutto io” e mi incontrai allora nella
loro collaborazione.
Proposi, per esempio, in una terza elementare un lavoro sulle regioni, dando delle
tracce, delle indicazioni su come classificare i dati: le caratteristiche del suolo, le coltivazioni,
le industrie e altro ancora. Questa ricerca piacque talmente, non per il metodo, ma per il fatto
che avessi fatto loro venir voglia di lavorare, lasciando loro spazio, che mi ritrovai tra le
mani un lavoro enciclopedico degno di una ricerca universitaria. In questo caso ero stata io il
Soggetto di una iniziativa che loro avevano raccolto e su cui avevano lavorato
abbondantemente. Raccolsi più di quanto avessi seminato. Mi ricordo di un’amica che portò
all’Università una ricerca storica fatta dai suoi allievi in quinta Elementare, ricevendone 10 e
lode. E’ un po’ per dire che l’Università incomincia dalle Elementari.
La mia iniziativa, che possiamo anche chiamare un “mi va” in andata, è stato l’anticipo
di ciò che avrei ricevuto: poteva anche andare male, ma anche questo andare male mi
sarebbe servito come correzione per una prossima volta, e il “mi va” finale è stata la buona
sorpresa per il lavoro concluso con l’aiuto di altri.
Il “mi va” è mobilitante, il “devo” no
L’interesse, il “mi va” è mobilitante, il “devo” non lo è.
A uno studente del penultimo anno di Liceo andava di seguire le orme di suo padre e
indirizzarsi verso gli studi di ingegneria civile, per poi lavorare nella sua ditta di costruzioni.
Aveva dunque ereditato l’interesse del padre, perchè non si ereditano solo i soldi
paterni, ma anche gli investimenti, gli interessi.
Studiava con profitto perché aveva l’idea di ciò che avrebbe potuto fare in futuro.
Succede qualcosa: lanciano lo Sputnik, il primo satellite artificiale e questo avvenimento,
frutto di un lavoro d’altri, gli fece venire una nuova idea. Incominciò a pensare che avrebbe
voluto lavorare nelle ricerche spaziali, un campo che si apriva in quel momento. Finiti gli
studi liceali, si iscrisse alla Facoltà di fisica. La sua strada ebbe inizio e divenne così un
astrofisico.
In questo caso lo “Sputnik” è l’esito di un lavoro che hanno fatto altri: il giovane uomo
si è trovato a esserne beneficiario e a potersi dire: “lo voglio anch’io”. Con questo “mi va”,
rispetto al lavorare alle ricerche spaziali, egli anticipa il beneficio che ne avrebbe ricevuto. E
prende l’iniziativa di seguire quella strada, già certo del beneficio.
Si può dire che questa persona ha ereditato l’interesse del padre, ma non vi si è fissato;
quando al suo orizzonte gli si presenta altro, investe su quello. Cosa ha fatto? Ha spostato
l’interesse ricevuto dal padre su altro, con libertà.
Se questa persona invece avesse detto: ”Devo seguire mio padre perché è mio padre, e
dunque devo, non perché mi piace, mi interessa, mi va, non avrebbe mai trovato la propria
strada.
Vi ho mostrato la differenza tra la posizione dura e pura del “Devo fare come mio
padre”, che è la strada dell’identificazione, e quella libera del “posso”, cioè dell’iniziativa, del
Soggetto che segue il proprio principio di piacere.
Soggetti e sottomessi
Se il Soggetto si muove verso qualcuno e verso qualcosa, perché ha il pensiero di
ottenere un di più, un profitto, di ricevere insomma qualcosa che prima non aveva, il
sottomesso si muove per comando, perché “deve”, perché è un compito a cui si è sottomesso,
perché lo vogliono i genitori, o perché tutti fanno così.
Diciamo che un po’ tutti a scuola abbiamo seguito questa strada, soprattutto alle
Superiori, non c’è di che scandalizzarsi: il nostro muoverci era un misto di dovere, di “tutti
fanno così” e il “mi va” era legato al fatto che in ogni caso is trattava poi di un’occasione per
incontrare gli amici, per chiacchierare nell’intervallo o giocare al pallone.
Ma fare le cose solo per dovere impedisce al pensiero di andare liberamente verso la
percezione del vantaggio che si può ottenere nel passare quelle ore a scuola, e poi
appesantisce perché non è soddisfacente per nessuno. Gli allievi solo sottomessi al dovere
devono essere continuamente richiamati a stare attenti, perché appunto il dovere non è
mobilitante e ciò risulta pesante anche per gli insegnanti. Sono lì loro stessi sottomessi al
dovere di insegnare e costretti a tenere la disciplina, di spingere perché gli allievi facciano …
il minimo.
In questi casi l’insegnante non è certo visto come un partner per un profitto.
La posizione libera dell’insegnante
Ma qual è la posizione dell’insegnante che può permettere a un allievo di riprendere il
pensiero del proprio vantaggio anche riguardo alle materie scolastiche perché arrivi al “mi
va?”
L’insegnante ha questa occasione quando ha già lui stesso una pista personale, gli va la
sua materia, e il suo aggiornarsi è legato non semplicemente al fatto di avere un ruolo, di far
parte di una istituzione, ma al suo interesse. Allora per lui ogni occasione è buona per
prendere dai libri, dai giornali, dai colleghi, dai dibattiti. Tanto che si potrebbe dire che il suo
lavoro lo fa per sé, ed è per questo che gli risulta soddisfacente, guadagnandoci, in più, uno
stipendio. Oltre a ciò, se uno è in questa posizione, non sarà lì a “pretendere” dagli allievi la
soddisfazione di quello che fa, ma eventualmente la soddisfazione dagli allievi gli arriverà
anch’essa come un di più, in modo sorprendente.
La posizione di chi “pretende” la soddisfazione dai propri allievi e dai propri figli è come
quella posizione di una mia amica che una volta mi disse: ”I miei figli non capiscono i sacrifici che io
ho fatto”. Io le risposi: “Ho sbagliato in tante cose, ma non ho mai preteso questo, perché toccava a
me fare le cose che desideravo fare, e se non le ho fatte è perché mi sono tirata indietro, per cui il mio
non fare lo imputo a me”.
Questa persona si era posta dei limiti quanto a ciò che avrebbe potuto fare, negli studi
e nel lavoro, restando poi preda dell’invidia e trattando male o ironicamente chi aveva
concluso più di lei. Era però una cattiveria spacciare dei limiti autoimposti per sacrifici fatti
per amore dei figli. Non so se la mia frase l’ha aiutata, comunque ora è direttrice di una
scuola, è riuscita dunque a raggiungere ciò che desiderava, ma che prima non si permetteva,
lasciando così in pace figli e altri.
L’insegnante che ha una pista personale è affascinante per gli allievi, perché qualcuno
che investe su ciò che fa può dare l’idea all’allievo che sulla realtà si può investire per un
profitto. In questo caso, l’insegnante che ha una propria pista personale, non è sottomessa al
dovere, ma è nella posizione libera del “mi va”.
L’inibizione
Ora farò un esempio di inibizione intellettuale, di arresto del pensiero: in tal caso non
ci si mette più a lavorare, non si investe più per ottenere un profitto. Non si riesce più a
imparare, a prendere. E’ esperienza comune notare come alcuni allievi pensino di non essere
capaci in qualche materia, per cui infatti dichiarano di “non essere portati”. E’ interessante
questa parola, che in realtà significa che non si è stati condotti da qualcuno ad avere gusto
per quella materia, che spesso è la matematica.
Un’amica mi raccontava che, quando lei era piccola, le avevano detto che non era fatta
per la matematica, allora lei l’aveva lasciata da parte, pensando: “non fa per me”. Questo
giudizio aveva limitato il campo del suo interesse e lei non aveva più lavorato in quel senso.
Non era arrivata fortunatamente a dire: “Non ne voglio più sapere, mettiamoci una pietra
sopra”, l’aveva semplicemente accantonata. Era stato messo un limite al suo pensiero, mentre
il pensiero è illimitato. Ma, nel suo caso, era bastato l’incontro con qualcuno che le ha detto:
”Perché no?”, per toglierla da questa sottomissione a un giudizio altrui che l’aveva limitata
nei suoi interessi. Questo intervento le aveva fatto addirittura guadagnare dei buoni voti in
questa materia, e un buon voto è un giudizio di profitto.
Perciò, nei giudizi che si danno agli allievi o ai figli, è meglio essere particolareggiati
nel puntualizzare un errore e dire: “Questa parte non l’hai studiata, riprendila”, piuttosto
che dire “Non sai studiare” o “Non fai mai niente”; è meglio precisare: ”Questa frase non sta
in piedi per questa ragione…”, piuttosto che dire: ”Tu sei negata per l’italiano”: certe
attribuzioni limitano il pensiero.
Ma voglio portare un altro esempio, presentando un brano tratto da un mio libro, in
cui racconto, sotto lo pseudonimo di “Vaga”, come sono intervenuta presso mio figlio per
fargli riprendere il gusto dello studio.
Scrivere libri è il mio modo di fare ordine nella mia vita, nei miei pensieri, di
riprendere le correzioni che altri mi hanno fatto e che mi hanno portato a rimettere in auge il
pensiero della soddisfazione.
In questi libri c’è la mia storia sotto forma di romanzo e in più punti parlo dei due figli
che mio marito e io abbiamo adottato quando loro avevano uno otto e l’altro nove anni.
Premetto che il figlio di cui qui parlo è il maggiore dei due. Quando è venuto da noi
aveva già una bocciatura alle spalle, che viveva come una sconfitta, o meglio come un
fallimento, e di cui non ha mai voluto parlare. Data la sua situazione familiare, non aveva
probabilmente ereditato il pensiero del profitto da trarre dal sapere e dalla cultura,
dell’utilità per lui dell’andare a scuola. Inoltre, lasciava sempre l’iniziativa di parlare al
fratello minore, che naturalmente faceva di tutto per imporre la sua idea.
Il brano che adesso vi leggerò ha a che fare con la situazione di impasse in cui alle
Superiori mio figlio si è ritrovato, mentre nei due anni delle Elementari e delle Medie le cose
erano andate avanti senza particolari problemi, perchè egli aveva accettato di far proprio il
nostro pensiero, che era poi quello dell’utilità del prendere, e dell’apprendere, dalla scuola.
Mio figlio dunque frequentava un Istituto Tecnico Superiore e, verso la fine di
quell’anno scolastico, doveva preparare tutto un programma di Italiano e di Storia, un lavoro
di mesi, immenso, perché gli mancavano molte interrogazioni.

“E Vaga se l’era preso vicino e aveva cominciato a spiegare la sintassi del periodo, richiedendo
poi al figlio degli esempi. Dall’altra parte ottenne dapprima un brontolio, seguito da una litania
ininterrotta di bestemmie elargite a piene mani e poi via via, qualche frase d’esempio esattamente
contraria alla logica. E Vaga, sempre più divertita, incominciò a sperare.
E ogni sera si metteva con foga a spiegar liriche, a rivoltar romanzi, a tracciar schemi, riassunti,
sintesi fino a che Lucio si decise a scrivere e a raccontare lui stesso, incuriosendosi anche a quelle
avventure inedite.
E così a Vaga venne l’idea che il figlio fosse un intellettuale in potenza perché sapeva collegare
pensieri filosofici e avvenimenti.
“Mi ha spiegato la teoria hegeliana e marxiana” disse spalancando gli occhi la professoressa di
italiano“ e in classe l’han guardato come non l’avessero mai visto e fuori gli han pagato da bere. L’ha
saputo anche la bidella! ..”
Che cosa ha reso possibile questo successo?
La prima persona che pensava che le difficoltà scolastiche fossero una questione
superabile ero io: sapevo che mio figlio aveva difficoltà non perché fosse nato così, ma
perché non riusciva a pensare di potercela fare, coprendo questo pensiero con un: ”Non me
ne frega niente”.
Se io avessi esordito con un: “Non capisci niente”, non avrei fatto altro che confermare
il suo pensiero negativo e non gli avrei dato nessuna possibilità, anzi avrei aggravato la sua
inibizione: questa frase sarebbe stata una vera e propria offesa.
Non avrei, del resto, potuto pronunciare questa frase, soprattutto perché la mia
posizione era un’altra: non era quella di una strategia guerresca, del corpo a corpo, del “Non
dire parolacce”, né quella del “Mettiamoci d’accordo” e neppure del “Poverino come t’ha
fatto male mamma”. La mia posizione derivava dalla certezza che si trattasse di inibizione
del pensiero, cioè di arresto, di impedimento del pensiero. Con il mio modo di fare gli ho
trasmesso la possibilità di un pensiero nuovo, l’idea che anche lui poteva prendere dalla
realtà della scuola e farsene qualcosa, perché l’inibizione non è l’ultima parola. Devo dire
che in effetti mio figlio riuscì a terminare la scuola, anche se, a tutt’oggi, non è ancora in una
situazione risolta, soddisfacente. Non sono bastati i momenti di successo, io ve ne ho
raccontato uno, che pure ci sono stati, a farlo rinunciare al pensiero di non essere capace.

Che cosa ho ricavato da questa esperienza?
1. C’era stata una disdetta del “mi va” rispetto alla scuola e dunque mio figlio aveva
deciso di non provarci più, pensandosi incapace.
Il Soggetto è il Soggetto del “mi va” sia dal lato della meta personale, sia dal lato del
successo in termini di voti, in questo caso, di profitto scolastico. Se ci sono troppi insuccessi,
e lui alle Superiori ne aveva avuti, e anche prima, il prender gusto a studiare viene disdetto.
A questo vanno, certo, aggiunti gli errori patogeni miei e di mio marito e la sua rinuncia al
proprio pensiero rispetto al fratello: tutto ciò aveva fatto sì che restasse solo con il dovere di
studiare rispetto al quale si era sentito incapace, e lì si era attestato.
Il “Non sono capace” non va mai preso come vera rappresentazione, è una falsa
rappresentazione; la vera rappresentazione è: ”Tu mi dici perché devo fare questa cosa, ma
io non vedo perché la devo fare. Mi resta solo che la devo fare e allora non ci riesco”.
Se il pensiero di base è “Non posso”, “Non sono capace a niente”, non c’è più un
“mettercisi”, un “mi va”: ci si impunta sul “devo studiare”, e a studiare non ci si riesce. Alla
fine si arriverà a dire: ”E’ troppo tardi”.
2. La crisi era scoppiata con il passaggio all’adolescenza, con la maturità sessuale; la
crisi può anche scatenarsi prima, ma solitamente - direi che è una costante anche in tanti altri
casi di insuccesso - con l’adolescenza, e con le nuove questioni provenienti dalla maturità
sessuale, viene a galla un pensiero su cui ci si era attestati prima. Mio figlio, dopo i
quattordici anni, aveva infatti abbandonato il pensiero che gli avevamo trasmesso di
potersene farsene qualcosa della scuola, e aveva ripristinato, quello di fallimento precedente.
Ma il pensiero attestato sul “Non sono capace”, coperto da una giustificazione, dal “Non me
ne frega niente”, è un pensiero malato.

3. La difficoltà scolastica divenne poi difficoltà sul lavoro che, alla prima occasione, alla
prima difficoltà. Abbandonava per cercarne un altro. E’ questo l’esito di una carriera
negativa.
Se non c’è ripresa del pensiero di poter profittare della realtà, si resta nella
sottomissione e non si passa alla soggettivazione, quella al lavoro, che è del Soggetto,
implicante un “mettercisi”.
Non è che mio figlio non avesse del tutto il gusto del lavoro o della scuola, ma non in
misura tale da scuotere l’idea di fondo di “non essere capace”: c’era un vuoto di pensiero
rispetto alla propria capacità. E’ riuscito, infatti, a lavorare fino a 27 anni sia pure con vari
cambiamenti, poi però è incominciata una parabola discendente, e l’unico modo che egli ha
trovato attualmente per riprendere è stato quello del tirare a campare, in attesa di un
miracolo. Non è ancora libero, non ha ancora il pensiero di concludere su ciò che vuol fare
nella vita. E’ come sospeso. Chi cresce nella vita è perché ha una prospettiva per il futuro e
lui non ha ancora questo pensiero.
La persona, in cui l’esperienza del “Mi va bene” non è stata troppo disdetta, recupera
facilmente, ma se l’esperienza del non andare è stata troppo forte, per cui è diventato
predominante il “Non mi va”, l’andar bene di qualcosa rimane solo un caso che non intacca
il presupposto ”Il mio destino è che mi vada male”. L’esperienza del successo è pur qualcosa,
ma non diventa determinante; basta una discontinuità, un incidente, una qualche non
riuscita e rispunta ancora il pensiero secondo cui il mio destino è quello di andare male. C’è
tuttavia una imputabilità in questo impuntarsi sull’ “ormai è troppo tardi”.
Nel caso di mio figlio, ora tocca davvero a lui di accettare di incontrare qualcuno
affidabile che possa dargli una mano e toglierlo dall’impasse. Ma l’iniziativa adesso è sua e
di nessun altro. E questo vale non solo per lui, ma anche per altri che sono in questa
condizione di inibizione.
Io preferisco pensare che mio figlio sia ancora nella situazione del figliol prodigo che
ha dissipato i suoi averi, i suoi talenti, ma che non sia ancora detta l’ultima parola, come la
parabola insegna.