Fiabe

le fiabe di Angela Cavelli
prendono spunto da quelle classiche

Io non c'ero
tra l'uno e nessuno,
ero un numero dubbio,
negativo.
di Angela Cavelli

Fiabe

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Sabato 2 Aprile, 2011
[...]

L’uccellino derubato aveva chiamato a raccolta i suoi amici e si era ripreso ciò che era suo. Pollicino allora si disse pensando ai suoi genitori: ”Mi dispiace per voi, questa volta non possiamo tornare, senza di noi starete senz’altro peggio e oltre a morir di fame, morirete di noia e senza speranza. Sono certo che da qualsiasi altra parte si starà meglio. Basta uscir di casa che si può trovare qualcosa di nuovo e di buono. A furia di dirci di non fidarci di nessuno m’ero quasi convinto che l’unico luogo ospitale, si fa per dire, era la nostra casa, ma io sono certo che qualcosa di meglio troverò! fosse anche una sola pagnotta e un cestello di patatine fritte.” I fratellini ancora una volta cercarono con ogni mezzo la strada giusta per tornare a casa, ma più cercavano, più si addentravano nella foresta. Venne la notte e cadde una pioggia torrenziale che li bagnò fino alle ossa. Pollicino di nuovo ebbe un’idea: si arrampicò su un albero, per vedere se poteva scoprire qualcosa. Girando il capo da tutte le parti vide un lumicino lontano lontano, al di là della foresta. Il piccolo scese dall’albero e disse risoluto ai fratelli: ”Andiamo da quella parte” e si avviò in testa a tutti. Cammina, cammina, i sette bambini arrivarono finalmente alla casa dove brillava appunto quel lume e bussarono. Pollicino cercò di giudicare dall’aspetto della dimora che gente vi abitasse. Vedendo la grossa lampada di Murano che pendeva all’entrata, le tendine di pizzo alle finestre e i gerani penduli rosa, potè concludere che almeno lì c’era una donna che si curava dei fiori e degli arredi di casa e che dunque c’era da sperare; di certo qualcosa di buono quella gente doveva avere perché amava la ricchezza. Una donna grande e grossa, una gigantessa dall’aspetto bonario, venne ad aprire: “Cosa volete? Badate che non ho bisogno di spille da balia senza punta, fazzoletti di carta stropicciata, penne che non scrivono, cerotti che non attaccano e neppure ho bisogno che m’insaponiate gli occhiali, però se non è per questo... che ci fate qui?” I bambini sorrisero e si spintonarono a vicenda, poi con tenerezza si attaccarono alle gonne della donna, mentre Pollicino disse per tutti: “Non siamo ambulanti... ci siamo perduti nella foresta e cerchiamo per carità un letto per questa notte e un pezzo di pane.” “Ahimè poveri piccini dove siete capitati! Sapete che questa è la casa di un Orco che mangia i bambini tenerelli, pensate che li preferisce alla mousse di castagne!” “Signora, non faccia l’esagerata! Con noi vostro marito avrebbe ben poco da rosicchiare e d’altra parte ancora un poco e moriremmo comunque di polmonite! Sono certo che troverete il modo di non farci scoprire! E poi sono sicuro che il signor Orco non è poi così cattivo come dite, visto che ha come sposa una gentildonna come voi!” La moglie dell’Orco che si era sempre sentita offesa dai vicini che le dicevano: ”Orco il padre, orchessa la madre, orchine le tue bambine!” si eresse in tutta la sua grandezza e si riprese la sua dignità e intonò lì per lì una celebre romanza d’amore e di gloria. Sentendosi rinata riandò a quando giovane sposa pensava di aver sposato l’uomo più forte del mondo e allora allargò le braccia e accolse i piccoli e li invitò a scaldarsi davanti a un enorme camino in cui bruciava legna odorosa e in gran quantità! “Non vi fate mancare nulla in questa casa!” continuò Pollicino vedendo la grandezza della ghiacciaia e i salami appesi alle travi. “Mio marito sarà quel che sarà, ma pensa alla sua famiglia! Lavora e guadagna molto. Ha una ditta di import-export di carne. Traffica anche con l’America... Ecco per voi delle crepes ripiene di cioccolato...” “Lei sì che se ne intende!” gongolò Pollicino e poi aggiunse: ”Sono felice per lei... ha un marito ricco d’iniziativa” e buttò gli occhi sullo spiedo su cui stava cuocendo lentamente un intero montone: era la piccola cena che ella preparava al suo sposo. La donna si eccitò talmente che fece un giro di valzer intorno al tavolo, poi passò alla polka e infine si buttò sul passo double che al marito piaceva tanto perché gli ricordava la corrida, il sangue e le frattaglie taurine. Mentre i piccini si scaldavano e si asciugavano, tre colpi furono battuti alla porta: era l’Orco che tornava a casa. “Poveri noi!” pensò la donna spaventata, interrompendo una battuta di tacco. Poi, rammentandosi che era una gentildonna che sapeva il fatto suo, una regina della casa e che ora aveva ospiti e doveva farli rispettare, si ricompose. Ci teneva ad essere una signora!” Non perse tempo e disse ai bambini: “Ficcatevi sotto la credenza” poi corse ad aprire al marito. “Buonasera signor marito, bentornato!” “E’ pronta la cena?” rispose l’omone ingrugnito e intanto girava per casa perché qualcosa pizzicava il suo olfatto finissimo. “Non mi salutate neppure! Che modi sono questi! Avete forse imparato l’educazione al Mau-Mau Costanzo zuf?” “Taci, donna, sento odor di carne fresca dai quattro anni in su... carne che gira nei nidi e negli asili...” “Ma è il montone sul girarrosto, che dici mai! E poi se mi tratti così, le nostre figlie come possono cogliere le gioie del matrimonio?” “Chi ti ha montato la testa? Non certo questo montone, qui c’è aria di teneri salsiccini... hai aperto la porta a qualcuno?” L’Orco di nuovo fiutò l’aria come rapito e il suo fiutare lo condusse verso la credenza stile “arte povera”. Senza tanti complimenti tirò fuori ad uno ad uno i sette bambini, prendendoli per il colletto. “Ecco i miei bocconcini, devo giusto offrire un pranzo a tre Orchi miei amici, che verranno presto a farmi visita. Saranno spiedini appetitosi, specie se li preparerai con una salsa al peperoncino, come ben sai fare tu!” Mentre la buona donna si gongolava per il complimento del marito, i bambini tremavano come foglie di salice. Quando poi videro che l’Orco andava a prendere un coltellaccio da cucina lungo sei spanne divennero verde mela per la paura. “Ma che volete fare a quest’ora?” gli gridò la moglie, riavutasi dal complimento “non avete tempo domani? Avete ancora tanta carne per i vostri amici: un vitello, due montoni, otto maiali, e poi quei vostri amici non ricambiano mai gli inviti e vi portano in dono solo carciofi duri e rinsecchiti! Non sono dei veri signori, non conoscono obbligazioni!” “Non dir male dei miei amici, gli Orchi van rispettati, però hai ragione, aspetterò. Da’ da mangiare in abbondanza a questi monelli, e portali a letto!” La buona donna tirò un sospirone di sollievo e servì la cena ai bambini ed essi, seppur spaventati, ingollarono ogni ben di Dio. L’Orco da parte sua fece festa all’intero montone e per dimenticare che i suoi denti consumati avrebbero preferito carne tenera e profumata di latte incominciò a bere. Alla fine dopo aver bevuto sette barili di vino si addormentò placato e felice come un angioletto. La moglie dovette usare una grossa leva per portarlo a letto. Quell’Orco aveva sette figlie che erano ancora piccine e che si muovevano solo a comando o al suono di marcette militari. Le bambine, per ordine dell’Orco, che le voleva ben educate, eran state mandate a balia da una strega che avrebbe dovuto insegnare loro come comportarsi nella vita. La strega aveva tutta una teoria su come si crescono i bambini e già quando le piccole erano in fasce aveva iniziato a dire loro come dovevano piangere, come ridere, se a denti stretti o a ganasce aperte, e, più avanti, come camminare, cioè se andare all’indietro o in avanti, se mettere prima un piede o l’altro, se strisciare o rotolare. E se le bambine si ribellavano, le legava con una corda rosa a pois verdi e poi con voce mansueta e dolce le incitava ad obbedire. Spesso le svegliava nel cuore della notte e impartiva loro lezioni di sonno: le piccole dovevano dormire per cinque minuti su un lato, per sette minuti sulla pancia, per dieci minuti sull’altro lato e per un quarto d’ora sulla schiena e poi dovevano ricominciare, perché esse dovevano essere regolate anche nel sonno. Per il cibo poi la strega s’era data molto da fare: le orchette dovevano mangiare quando l’orologio batteva le ore e non prima o dopo. E così, se strillavano per la fame, la strega non dava loro nulla, ma al batter dell’ora le rimpinzava come polli. E queste s’eran così regolate da assomigliare davvero ad un orologio svizzero, tanto che gli amici per salutarle gridavano: ”Cu-cu”. Quella sera la madre le aveva fatte coricare presto ed eran tutte in un gran lettone, ognuna con una piccola corona d’oro sulla testa. Ogni tanto, secondo i comandi imparati dalla strega, queste si giravano e rigiravano ed era come veder muovere delle bambole meccaniche. Anche i sette fratellini finirono in quel lettone, ma con dei berretti di lana azzurra che avevano ricamata la scritta: ”Siamo tutti fratelli.”

(continua...)
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