Fiabe

le fiabe di Angela Cavelli
prendono spunto da quelle classiche

Io non c'ero
tra l'uno e nessuno,
ero un numero dubbio,
negativo.
di Angela Cavelli

Fiabe

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Venerdì 1 Aprile, 2011
[...]

Quella notte si svegliò alle quattro tutta intristita, probabilmente perché aveva lo stomaco vuoto e il fegato a pezzi. Da un vaso prese una margherita e incominciò a sfogliarla: ”Sono una signora o non sono una signora? Sono una principessa o non sono una principessa?”, ma neppure la margherita potè dare un responso perché l’ultimo petalo era solo un mezzo petalo. Una grande angoscia la prese. Che ne sarebbe stato di loro e dei loro sudditi? E dei figli che aveva tanto desiderato? Decise allora di farsi forza e di parlare l’indomani al principe. “Perdonami mio principe, ma i figli che avremo, che abbiamo tanto desiderato, che futuro avranno senza scuole, istitutori, tutor, mercati e mercanti, vie della seta, del sale e dello zucchero, teatri, televisori, antenna parabolica, libri, campi, amici, terre da governare? Non saranno che dei poveri miseri.” “Figli? In nome della povertà avremo solo mezzo figlio.” “Mezzo figlio? Ma come è possibile?” “Certo, dovrà essere talmente magro e scheletrito da non fare invidia a nessuno, così che nessuno potrà dire che è figlio di principe.” “Questo poi è troppo. Vada per i cavalli mezzo rincoglioniti, per i servitori a mezzo servizio, per la dispensa mezza vuota, ma mezzo figlio, mai! La tua crudeltà dunque giunge a tanto?” “Non la mia crudeltà, ma il mio principio di povertà, cara!” “Sia anatema!” urlò Arcadia. “Con l’aiuto del re mio padre il nostro letto sarà diviso in due, il nostro castello, le scuderie, gli ammennicoli, i soprammobili tutto sarà diviso in due, io mi farò vanto d’essere la principessa più spendacciona del regno. Il mio mezzo castello sarà sempre illuminato a giorno e canti e balli lo allieteranno, alla faccia del bicarbonato di sodio e del tuo principio di povertà! -Carpe diem- sarà il mio motto!” Così disse Arcadia e così avvenne. Mentre l’ala sinistra del castello divenne lugubre e triste, covo di barbagianni e cornacchie, dove gli arazzi erano stati sostituiti da mistici pannelli infilzati di chiodi o coperti da filari di pastiglie al mirtillo, e dove il merlo indiano gracchiava: ”Soffro, dunque sono”, l’ala destra pareva il regno del lusso e dell’abbondanza: porte dorate, tende di pizzo, arazzi sui balconi ingentiliti da piante ricercatissime e rare. All’inteno era obbligo un festeggiamento continuo che non doveva mai terminare, tanto che servi e musici erano spesso preda di esaurimento nervoso. Arcadia cercava con cibi raffinati, rosolii delicatissimi, abiti splendenti e amici scervellati, il cui obbligo era d’essere sempre allegri, di dimenticare la sua sventura. Però, per quanto facesse, non poteva certo ignorare che era la sposa sventurata del principe Berto. Allora cercava consolazione nel famoso Limoncino del Perù che si faceva portare dalle lontane Ande. Intanto Berto, solo e inacerbito, meditava come condurre avanti il suo progetto. Poiché da tempo non riuniva più in assemblea i suoi dignitari e consiglieri, il regno era in rovina. Decise di parlare al popolo che senz’altro avrebbe approvato il suo progetto. E così convocò tutta la popolazione del reame e presentò le sue decisioni: “Cari sudditi, io, vostro principe, ho deciso di donarvi la cosa più importante che esita!” Il popolo, costretto dalla carestia di quei mesi a vivere di poco se non di nulla, pensò che finalmente il principe avesse deciso di dar mano alle riforme che aspettavano da mesi, così che le terre avrebbero ricominciato a prosperare e gridarono: “Urrah!” “Ecco, cari, io, principe illuminato, vi insegnerò la virtù che sola vi farà felici, vi educherò alla povertà.” Un lancio di forche, badili, zappe, secchielli, martelli e seguenti investì il povero principe che dovette ritirarsi nella torre Nord del castello a masticare trifoglietto. Purtroppo neppure questa disavventura ebbe il potere di far ritornare sui suoi passi Berto. Intanto i principi dei paesi vicini, capitanati da Ulderico de’ Cicoria, decisero di appropriarsi delle terre del principe di Carabas, visto che la popolazione meditava la ribellione, che l’esercito era stato mandato a contare le stelle e le guardie del principe erano intente a pettinare i gatti del reame. Il castello poi, senza più servi, artigiani, governanti, dame, guardie, era invaso dai porci che si nutrivano delle perle e dei dobloni del principe che voleva essere povero. Quando i conquistadores arrivarono nella città dove sorgeva il castello e iniziarono a incendiare le case, Berto, vedendo i bagliori di quel fuoco che sempre più guadagnava terreno e presto avrebbe lambito il castello e magari abbrustolito i suoi abitanti, si ricordò di quando le sue budella bruciavano per la fame e ritornò in sè. Richiamato da alcuni contadini che gli erano rimasti amici, incominciò a rendersi conto di quanto aveva combinato. Si guardò intorno: ovunque sporcizia e miseria. Quell’ala del castello una volta ricca e sontuosa era ridotta ad una bicocca malconcia, senza neppure l’impianto antincendio! Corse sugli spalti come un forsennato a cercare la sua sposa Arcadia per chiederle aiuto. La principessa, anch’essa sugli spalti e angosciata per la sorte del suo principe, gli corse incontro e lo condusse in salvo nei sotterranei del castello in cui aveva fatto costruire un rifugio anti-assedio. I due sposi stavano per gettarsi l’uno nelle braccia dell’altra, ma l’ora non pareva propizia perchè i nemici incalzavano e urgeva organizzare la difesa. Berto si scosse e con decisione si rivolse alla sua sposa ritrovata: “Voglio parlare con il gatto con gli stivali, ho bisogno dei suoi consigli: tu fallo cercare, io intanto richiamerò l’esercito che sta sul monte dell’Orsa a contar le stelle e combatterò per riprendere il mio regno.” Arcadia finalmente si sentì felice pur nella sventura: il suo sposo, abbandonati i suoi infausti progetti, pareva ritornato un vero principe. Da parte sua convocò tutti i suoi ospiti, tra i quali si trovava il cantante Ettore Johns che con le sue nenie aveva il potere di far piangere anche le galline e di far aprire tutte le cateratte del cielo. Lo mandò sulla rupe più alta e quando questi intonò “Flowers in the wind” dal cielo cominciò a cadere una pioggia scrosciante che spense il fuoco dell’incendio. Poi ordinò alla sua fantasiosa dama di compagnia, Maria Poppins, di riordinare, subitamente, con le sue magie l’ala del castello che era stata del principe perché tutto ritornasse come prima. E così avvenne. Il principe Berto riuscì non solo a riconquistare le sue terre, ma occupò anche quelle di Ulderico de' Cicoria che dovette ritirarsi in un eremo. Arcadia, dopo aver spedito i suoi ospiti in tutti i luoghi della terra perché ritrovassero il gatto, attese ansiosa il ritorno del suo principe. Quando Berto giunse vincitore, questi si tolse la spada, l’elmo, la corazza, gli schinieri e si inginocchiò davanti ad Arcadia e le chiese perdono. Ora che aveva imparato dai suoi errori sarebbe stato più vigile e accorto e l’avrebbe tenuta cara e in grande considerazione. Arcadia da parte sua ammise che il lusso da lei ostentato non era che una reazione rabbiosa, seppur giustificata, ma che la vendetta non le era riuscita e che ora desiderava solo ritornare a vivere con lui. E così, felici e ritrovati, si buttarono l’uno nelle braccia dell’altra. Trascorsi alcuni mesi uno squillo sonoro di tromba a cui risposero, sonori, altri squilli, annunciò l’arrivo nella sala del trono di una eminente personalità: il gatto con gli stivali.

(continua...)
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